L’ansia: un sistema che si attiva… a volte troppo!
L’ansia: un sistema che si attiva… a volte troppo!
“Avevo il cuore che correva, ma ero paralizzata. Impossibile rispondere a quella mail, impossibile anche solo leggere il messaggio. Rimandavo e basta. Pensavo: se sbaglio, se dico la cosa sbagliata, se pensano che sono stupida… e allora stavo zitta. Ma poi mi odiavo per questo.”
— F., 32 anni
L’ansia, a livello neurofisiologico, rappresenta una risposta di allerta del nostro sistema nervoso. Un po’ come se il cervello, per proteggerci da un pericolo, premesse sull’acceleratore. Il problema nasce quando questa risposta psico-fisiologica, fondamentale per la sopravvivenza, resta costante o si manifesta in modo sproporzionato rispetto agli eventi, fino al punto di limitarci nella nostra libertà di fare esperienza, entrare in relazione con gli altri e affrontare le sfide quotidiane in modo efficace. In quel caso, il corpo rimane in uno stato costante di allarme, anche quando non c’è una minaccia reale.
È questo il caso di F., una giovane donna arrivata in studio in un momento in cui la paura aveva preso il sopravvento su ogni altro aspetto della sua esistenza.
Ansia generalizzata: un sottofondo sempre presente
F. è arrivata in consultazione dopo mesi di disagio crescente. La sua era un’ansia pervasiva e costante, caratterizzata da uno stato di tensione e una costellazione di preoccupazioni che si muovevano da un tema all’altro. Prima il lavoro (“e se sbaglio tutto?”), poi le relazioni (“mi avranno trovata noiosa?”), poi la salute (“e se mi ammalo improvvisamente?”).
A livello clinico, F. presentava sintomi marcati: tensione muscolare costante, insonnia severa, calo dell’appetito, episodi di tachicardia e respiro corto. Sul piano emotivo, dichiarava di percepirsi sempre sotto esame, anche quando era da sola. Bastava una notifica sul telefono per scatenare un picco di attivazione: sudorazione, senso di svenimento, testa che girava. Ogni stimolo diventava il principio di possibili scenari catastrofici o l’anticipazione di una prospettiva di fallimento. Più volte ha raccontato episodi in cui, davanti al computer, si bloccava completamente: un attacco d’ansia così forte da farle lasciare il lavoro in ufficio e chiudersi in bagno per piangere in silenzio.
Il giudizio degli altri: uno specchio attraverso cui guardarsi
Uno degli aspetti più invalidanti per F. consisteva nella paura di essere osservata, fraintesa, scartata. Nelle situazioni sociali, anche le più comuni, emergeva la percezione profonda di una minaccia: essere “smascherata”. Di conseguenza, la sua mente anticipava ogni possibile errore: “Se sbaglio, si accorgeranno che non valgo. Che non sono come pensavano. E allora, mi allontaneranno.”
Questa pressione costante aveva portato a strategie evitanti, come smettere di rispondere ai messaggi vocali, declinare inviti alle cene, restare in silenzio nelle riunioni anche quando avrebbe voluto parlare. Ogni evitamento era una micro-protezione, ma anche una micro-rinuncia. Quando invece F. si trovava costretta in specifiche situazioni sociali, cercava di apparire a tutti i costi brillante, competente, gentile, risultando così sempre meno autentica e spontanea.
Tali meccanismi, come l’evitamento, tipici dei disturbi d’ansia, sembravano darle sollievo nell’immediato. Ma a lungo andare stavano gradualmente condizionando la sua vita: le relazioni si stavano diradando, il lavoro ne risentiva, e il senso di colpa aumentava. Il suo mondo si stava restringendo sempre di più. E con esso, anche la fiducia in sé stessa e nelle proprie capacità.
Il lavoro terapeutico: dare senso
Nel lavoro con F. lo spazio ti terapia ha rappresentato innanzitutto una zona protetta in cui poter nominare la sofferenza, senza il timore di essere giudicata. Attraverso la relazione terapeutica, F. ha cominciato a esplorare i meccanismi di funzionamento della sua ansia, connesse a una storia personale segnata da richieste implicite di perfezione e da modelli relazionali in cui sbagliare non era concesso. Abbiamo quindi ricostruito insieme gli episodi più acuti, osservato in che momento del corpo e del pensiero si accendeva l’ansia, cosa la precedeva, come si manifestava.
A poco a poco, F. ha imparato a riconoscere i meccanismi che alimentavano la sua ansia: il bisogno di controllo, la paura di deludere, l’idea – spesso implicita – di dover essere sempre perfetta. Ha iniziato a confrontarsi con queste emozioni senza evitarle, accogliendole e osservandole anche quando sarebbe stato più facile evitare. Infatti, nel funzionamento del circolo vizioso dell’ansia, i tentativi di controllo e le forme di evitamento costituiscono forti fattori di mantenimento del disturbo, e contribuiscono a creare una modalità di narrarsi in base a temi di inadeguatezza e incapacità personale.
Proprio per questo, oltre al lavoro sul sintomo, è stato infatti necessario lavorare sulla sua narrazione interna. Chi era F., al di là delle sue performance? Quale parte di lei poteva essere ascoltata, anche quando non era in grado di eccellere?
Il lavoro clinico ha quindi integrato l’ascolto empatico con interventi mirati, come la ricostruzione dei pensieri disfunzionali e l’assegnazione di compiti esperenziali finalizzati a mettere F. nella condizione di fare esperienza di sè in modo inedito. Un passaggio chiave è stato accettare che la paura non fosse un segnale di debolezza, ma una risposta coerente alla sua storia. Questo ha permesso a F. di spostarsi da una posizione passiva (“devo evitare”) a una posizione attiva (“posso restare, anche se ho paura”).
Nelle settimane successive, F. ha iniziato quindi a sperimentare situazioni che evitava da tempo: ha chiesto chiarimenti a un superiore, ha partecipato a una call senza spegnere la telecamera, ha accettato un invito a cena. Non sempre è stato semplice. In alcune occasioni l’ansia è tornata, anche con forza. Ma la differenza è che, questa volta, F. aveva strumenti. Non più solo strategie di fuga, ma modi per stare.
L’ansia come “richiesta”
L’ansia, soprattutto quando è invalidante, richiede un ascolto attento. Non va solo gestita, va innanzitutto compresa.
La storia di F. testimonia qualcosa che in psicoterapia osserviamo spesso: non è la paura in sé a bloccarci, ma il modo in cui la interpretiamo e ci relazioniamo ad essa. Quando viene accolta e compresa, può trasformarsi in un’occasione di crescita. Il coraggio non è l’assenza di paura, ma la scelta consapevole di andare avanti nonostante la paura. E questa scelta, nella relazione terapeutica, diventa possibile.
A Quipsico ci occupiamo ogni giorno di ansia, in tutte le sue forme. In un percorso psicologico è possibile imparare a conoscere le proprie paure e a trovare nuovi modi per affrontarle. Anche quando sembra impossibile. Anche quando si ha la sensazione di non farcela.
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